Veritas et Voluptas

 

C’è un periodo della Storia dell’Arte che fu l’elaborazione dei movimenti Dada, Espressionismo e Surrealismo e si fa coincidere con un gruppo di artisti che non stilò un manifesto né fu omogeneo nell’ideologia e nella tecnica costruttiva delle opere, ma sicuramente segnò un passaggio fondamentale nella lettura semantica dell’opera d’arte che fino agli anni ’50 si era basata sulla distinzione tra le produzioni figurative e quelle astratte. Il periodo di cui parlo è quello “Informale” e, in particolare, è all’esperienza artistica che caratterizzò Alberto Burri negli anni tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’60 che farò riferimento per introdurre la filosofia estetica di Angela Cacciamani

Ciò che, a mio avviso, è poco approfondito del primo periodo di uno dei maestri dell’informale, è che lui considerò la materia usata e gli oggetti consueti e usurati come i sacchi, non solo perché questo evidenziava ancor di più la frattura su ciò che era riconducibile a un’idea formale e figurativa di un concetto. Alberto Burri, in effetti, scelse ciò che era usurato e vissuto perché quelle cose erano l’evidenza dei segni di “Tempo, Crono” come storia che gli elementi e gli uomini narrano sulla materia e anche perché gli oggetti “poveri” come i sacchi di juta, sono esternazione dei tempi intesi come visualizzazione nel razionale della vita interiore, psichica.

La materia diveniva alla fine degli anni’50 specchio non solo degli impulsi interiori, ma icona di una società che si identificava con nuovi eroi: gli elettrodomestici, i distributori, gli oggetti tecnologici, la grande diffusione di beni, prima ancora che con quegli ideali, che persone come il maestro di Città di Castello, ritenevano traditi. La generazione di Angela Cacciamani è figlia di quella che visse il dopoguerra. Alla filosofia del commerciale e del prodotto che è usurato dai tempi dell’uomo si aggiunge quella dei materiali del tempo dei mercati, e quelli della filosofia, che si è rivelata antiecologica, dell’usa e getta.

Angela Cacciamani crea soggetti con la stessa cura e composizione del musicista. Al posto dello spartito, delle note e delle battute usa vernici, bitume, cartone, iuta usata e poi crea un sistema compositivo come se quegli oggetti, quelle materie non fossero altro che elementi idonei e insostituibili per recuperare, seppur in parte, un tempo perduto.

Sì perché è di questo che si vuole e si deve parlare per comprendere la filosofia estetica di Angela Cacciamani e di come l’uomo negli anni a cavallo tra il 1940 e i 50 volle provare a risollevare la testa dopo gli orrori della seconda guerra mondiale che sembrò segnare in maniera definitiva l’inizio di una nuova era fondata sulla pace, sulla eguaglianza, sul bene comune e sulla distribuzione dei bene per tutti senza distinzione, di razza, religione o appartenenza politica.

Ci vollero pochi anni per capire che l’uomo non sa fare memoria di ciò che è la storia passata e a nulla servì il grido che si levò alto dall’apertura dei campi di concentramento, a nulla servirono le testimonianze dei reduci dei gulag, di quelli che furono prigionieri degli inglesi in india e di quelli che furono rinchiusi nelle prigioni americane in Texas, scoppiarono ancora guerre in Vietnam, in Corea e poi disordini e divisioni tra stati che resero ancora più instabili le cognizioni circa la fiducia nelle istituzioni e in una politica che era sempre più protesa verso interessi economici di casta piuttosto che al servizio dei cittadini.

L’artista è sempre stato sinonimo di colui che sottolinea ed evidenzia i segni dei tempi e negli anni tra il 1950 e ’60 molteplici furono le espressioni artistiche che stigmatizzarono un fare arte che segnava essenzialmente l’elaborazione dei movimenti dei primi del ‘900 e che gli storici dell’arte chiamarono col termine Post modernismo. Tra i gruppi che costituirono questa convulsa, mai esplicata in termini socio politici, fase storico artistica c’è il movimento informale che si scisse in due filosofie, l’informale materico e quello gestuale. In quello materico si riconosce il genio di Burri in quello gestuale certamente quello di Pollock.

Alberto Burri Umbro, di Città di Castello, scelse all’inizio della sua ricerca estetica il concetto di storia che segna la materia costruita dall’uomo. E utilizzò iuta, nylon, legni usurati, logorati, sporcati dall’utilizzo per cui erano stati pensati per poi assembrarli su piani che si completavano in forme senza geometrie precise e nelle cromie forti e contrapposte. Quasi che i neri del bitume e i rossi delle vernici non fossero altro che la forza della passione che equilibrava la drammaticità di un tempo che aveva segnato il percorso umano. Non c’era nel Maestro di Città di Castello la mera volontà di costituire nuove armonie in un’originale, per quel tempo, composizione pittorica, c’era piuttosto la volontà di dar forma e immagine alla melanconia che lacera gli animi di quegli artisti che hanno “l’assistenza” della musa della poesia e della pittura nello stesso momento. È così che l’osservatore riscopre il rosso dell’eros che bilancia un nero che squarcia la terra della iuta. Il nero diventava sinonimo di morte ma anche notte che attende l’alba e la risoluzione del tutto con un nuovo giorno. È in questa prima fase di Alberto Burri che Cacciamani parte per rielaborare al femminile la sua filosofia estetica. Burri è di Citta di Castello cioè di quella parte nord del cuore d’Italia che risente dell’armonia meditativa toscana, è umbro come Angela Cacciamani, spoletina di nascita, figlia anche di una esperienza che negli anni’60 segnarono a Spoleto una svolta concettuale nella ricerca materica con Piero Raspi, e Giuseppe De Gregorio. Angela cresce artisticamente rielaborando i grandi del surrealismo e affina la sua capacità grafica che gli consente di evidenziare una dote che le donne hanno in evidenza per proprietà celebrali rispetto all’uomo, quella cioè di organizzare più elementi anche dissonanti tra di loro in modo che, nell’opera finita, si possa trovare un’armonia anche tra le diversità, anche tra ciò che prima sembrava impossibile accostare. È lo stesso concetto che regge il contrato tra l’etimo comprensione, complementarietà da un altro etimo che invece regge i ternini: tolleranza, differenziazione. Nelle opere di Angela Cacciamani si respira un contrasto che evidenzia la verità che distingue due entità che coesistono in armonia e si completano a vicenda, Se in Burri ogni elemento, pur nella composizione proporzionata tra masse, vuoti, pieni e cromie, restava isolato, nelle composizioni di Angela sia colore che elemento quasi danzano in un canto che rimanda a geometrie che si premettono l’una con l’altra. Il contrasto diviene mezzo per percepire il bello, l’equilibrio, la simmetria fatta di misure e colori. È un fare arte quello della Cacciamani che ha a che fare con la ragione dei sentimenti che vuole trovare una riva finalmente giusta dopo tanto naufragare. In Angela c’è il desiderio di trovar finalmente pace, equità ed armonia perché lei fa parte di quella generazione che sperava che il progresso del dopoguerra avrebbe riportato una nuova era fondata sulla pace, sulla eguaglianza, sul bene comune e sulla distribuzione dei bene per tutti senza distinzione, di razza, religione o appartenenza politica. Ed è con uno spirito indomito di donna, di donna bionda, che in ogni opera canta il suo proclama. Così il colore bianco risponde in maniera perfetta alla stessa tonalità ma che è screziata, ruvida e poi mossa come se il vento avesse radunato un fogliame provenuto da altre dimensioni. E poi i cretti così precisi, crescenti in moto determinato perché e alla a libertà della materia di non resistere all’unità all’ordine del piano, al piatto della superficie che Angela vuole dar voce.

Angela Cacciamani è una sorta di sibilla moderna che nel suo laboratorio tra polveri, tele, bitumi e colori costruisce la sua medicina e la sua mappa perché l’uomo che guarda le sue opere non abbia a perdere la bussola o si ritrovi nel perderla. Geniale è l’uso di colori luminosi che mancarono al maestro di Città di Castello. Lei usa il celeste là dove ci si aspetterebbe per logica il bianco sporco del muro o il nero del catrame più che il marrone della terra e tutto ha una nuova dignità visiva. Come se la passione di Angela desse alla materia una nuova verità. E risento la favola antica di una dea che creò il cosmo dal caos e il celeste diventa nuovo cielo la terra si fa materia da sfiorare e da contemplare, i confini nelle opere di Angela sono linee che distinguono senza rendere diverse le zone colorate. Fantastico poi è il suo modo di rendere l’opera finita inserendo a composizione in alvei neri. Tutto diventa possibile nelle opere di Cacciamani perché la sua ispirazione è figlia dell’eros (Amore) e di psiche (Anima) e queste due entità generano ciò che ci rende vivi e capaci di conoscenza e quindi di amare. Mi sono trovato sorpreso nel trovare il mio animo squassato mentre osservavo Angela costruire la sua opera, mater genetrix che riconosce ciò che l’uomo ripudia e come Iside dona nuova vita.

Nelle opere di questa artista c’è il canto antico che può rinnovare la nostra coscienza e dare finalmente un vento nuovo alla stasi che regna in questo tempo; il celeste di Angela è un cielo nuovo, il rosso un nuovo eros, il marrone una nuova terra e il nero diventava sinonimo di morte da cui rinascere ed è anche notte che attende l’alba e la risoluzione del tutto con un nuovo giorno, un giorno nuovo. 

 

 

Alberto D’Atanasio