Decisamente pittura
Una testimonianza critica è sempre esercizio che sfiora l’eresia, o l’utopia, perché nulla è più mercuriale dell’arte; nulla è più mobile dell’arte nel tempo e nello spazio, e finanche i cosiddetti fondamentali, dal 1910, sono così divelti fino a scoprire radici senza linfa apparente, che l’artista, il pittore, anzi la pittrice in questo caso, è scheggia nell’universo, o dell’universo, distante dalla realtà o troppo vicina ad essa, in tutti i casi meteora e metafora del Nulla.
Angela Cacciamani ha da un lustro trovato o ri–trovato se stessa; ha, per usare l’intelligenza esegetica di Franco Gentilucci, recuperato l’astratto, donandosi al culto di Alberto Burri, con originale, non servile “imitazione”, ma in specie aprendo orizzonti nuovi, rinnovati, riletti, reinterpretati. Non so che cosa diranno i censori e i custodi della macchina museale e dei diritti d’autore, ma Angela Cacciamani, mi sembra, sia in costante adorazione del Nume tifernate, ne è vestale e interprete, amante sentimentale, studiosa profonda della sua materia e del suo mondo, che fra il 1949 e il 1950 si squarciò come l’albatros di Baudelaire le interiora per alimentare il sogno della pittura, e per dare sangue e carne allo spirito inquieto in un’epoca storica inquieta ed esaltante.
Un artista umbro e così globale nel contempo non doveva ispirare uno spirito femminile alla ricerca di sé? Osando e usando materiali d’accatto, ignobili, e nobilitandoli in una iconodulìa delirante della forma, del colore, delle masse, in una sorta di guerra dell’antimateria – elettricità di carica opposta -, o in una battaglia all’ultimo sangue dell’aniconico contro la figura, smentendo il piacere dell’adorante celebrazione del proprio orto, inteso come consolatorio porto delle nebbie.
Angela Cacciamani, dunque, senza remore, come dicono stancamente i politici: senza se e senza ma, scopre il gusto, la vertigine della materia, dei materiali, dei pigmenti ma pure degli “oggetti” e sfida la pittura, l’arte, sé medesima, senza infingimenti né dubbi. Se la materia trattata è metafora del corpo umano e del corpo dell’arte – che si dice sempre in procinto di tirare le cuoia –sono le sue qualità organolettiche, organiche, intrinseche a permettere l’alba di nuove forme e nuove superfici, e da questa scoperta inizia la metamorfica nascita di un Nuovo Mondo, nel quale c’è sì l’Angelus Novus di Walter Benjamin e di Paul Klee ma pure l’essenza del corpus della pittura, la sua anima e la sua animula.
In alcune tele di Angela Cacciamani leggo anche un certo William Congdon, che in Assisi visse e dipinse, religiosamente, misticamente; e tale lirica e serafica condizione ritrovo nell’artista trevana, ma europea, che fa vibrare i trucioli e le schegge organiche, il gesso e i quarzi rutilanti, le gocce di colore–sangue, facendo intuire che il sacro non è occasionale, ma funzionale alla sua sensiblerie, e la juta, i legni si animano, prendono aria nel colore, e San Sebastiano mostra i vulnera del martirio, e nella Sacra Famiglia sembra alitare l’aura della fede. Una fede laica, che nei numeri, il “9” per esempio sembra segnare l’ora x, l’alfa del risveglio. Mentre il colore cola e si addensa e si dilata oltre, nella terra incognita.
Antonio Carlo Ponti
Bevagna, 14-15 gennaio 2011